«Un vero rivoluzionario è guidato da forti sentimenti di amore. È impossibile immaginare un autentico rivoluzionario senza questa qualità (...). È necessario lottare ogni giorno perché questo amore per l’umanità si trasformi in fatti concreti, in gesti che siano di esempio e sappiano mobilitare gli altri».
Soltanto un uomo di grande levatura morale poteva scrivere una cosa simile. Forza morale che spiega la venerazione che molti ancora oggi nutrono per Ernesto Guevara (conosciuto come “Che”, per l’uso frequente che faceva dell’intercalare argentino “che”), a distanza di 40 anni dalla morte, avvenuta l’8 ottobre 1967 a La Higuera (Bolivia), a soli 39 anni.
L’intera vita del “Che” è contrassegnata dall’utopia rivoluzionaria. Nel marzo 1952, mentre visita il Cile, giunge a Baquedano, presso le miniere di rame di Chuquicamata. Un minatore che lo ospita gli parla dei tre mesi trascorsi in prigione con la moglie, della solidarietà mostrata dagli amici e dei molti compagni misteriosamente spariti nel nulla. Al momento di coricarsi, Guevara si accorge che la famiglia non ha una coperta per ripararsi dal freddo e dà loro tutto ciò che ha. In seguito, ricorderà che in quella notte ha iniziato a considerare fratelli tutti gli oppressi del mondo. Due mesi dopo, in visita al lebbrosario di San Pablo, nota che i malati sono senza vestiti, cibo e medicine. Si ferma presso di loro alcune settimane e li cura con i pochi farmaci che ha portato con sé. «Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro uomo»: probabilmente ha ragione F.Castro quando disse che «Se il “Che” fosse stato cattolico praticante, gli sarebbero state riconosciute tutte quelle virtù in nome delle quali si dichiara una persona santa» (1985).
Oggi, mentre l’ondata neoliberale devasta il pianeta, la figura di Guevara emerge come un esempio per tutti coloro che credono che «finché ci sarà una sola persona affamata, oppressa ed esclusa, è necessario continuare la lotta» (il “Che” a Hildita). Naturalmente servono forme di lotta diverse da quelle adottate dal “Che”, ma è innegabile che ciò che determinò la sua scelta rivoluzionaria – la miseria di molti – non fa che crescere. Da qui l’imperativo etico che s’impone a coloro che s’impegnano per la costruzione di un futuro in cui tutti possano partecipare, come fratelli, ai «beni della terra» e ai «frutti del lavoro umano».
«“Che” Guevara è stato soprattutto questo, un combattente della Giustizia. A prescindere da alcune sue scelte e dai metodi usati, si deve riconoscere che ha saputo amare gli oppressi e gli ultimi »(Frei Betto).
Soltanto un uomo di grande levatura morale poteva scrivere una cosa simile. Forza morale che spiega la venerazione che molti ancora oggi nutrono per Ernesto Guevara (conosciuto come “Che”, per l’uso frequente che faceva dell’intercalare argentino “che”), a distanza di 40 anni dalla morte, avvenuta l’8 ottobre 1967 a La Higuera (Bolivia), a soli 39 anni.
L’intera vita del “Che” è contrassegnata dall’utopia rivoluzionaria. Nel marzo 1952, mentre visita il Cile, giunge a Baquedano, presso le miniere di rame di Chuquicamata. Un minatore che lo ospita gli parla dei tre mesi trascorsi in prigione con la moglie, della solidarietà mostrata dagli amici e dei molti compagni misteriosamente spariti nel nulla. Al momento di coricarsi, Guevara si accorge che la famiglia non ha una coperta per ripararsi dal freddo e dà loro tutto ciò che ha. In seguito, ricorderà che in quella notte ha iniziato a considerare fratelli tutti gli oppressi del mondo. Due mesi dopo, in visita al lebbrosario di San Pablo, nota che i malati sono senza vestiti, cibo e medicine. Si ferma presso di loro alcune settimane e li cura con i pochi farmaci che ha portato con sé. «Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro uomo»: probabilmente ha ragione F.Castro quando disse che «Se il “Che” fosse stato cattolico praticante, gli sarebbero state riconosciute tutte quelle virtù in nome delle quali si dichiara una persona santa» (1985).
Oggi, mentre l’ondata neoliberale devasta il pianeta, la figura di Guevara emerge come un esempio per tutti coloro che credono che «finché ci sarà una sola persona affamata, oppressa ed esclusa, è necessario continuare la lotta» (il “Che” a Hildita). Naturalmente servono forme di lotta diverse da quelle adottate dal “Che”, ma è innegabile che ciò che determinò la sua scelta rivoluzionaria – la miseria di molti – non fa che crescere. Da qui l’imperativo etico che s’impone a coloro che s’impegnano per la costruzione di un futuro in cui tutti possano partecipare, come fratelli, ai «beni della terra» e ai «frutti del lavoro umano».
«“Che” Guevara è stato soprattutto questo, un combattente della Giustizia. A prescindere da alcune sue scelte e dai metodi usati, si deve riconoscere che ha saputo amare gli oppressi e gli ultimi »(Frei Betto).
Hasta Siempre, scritta da Carlos Puebla nel 1965 prima della partenza del Che per la Bolivia.
2 commenti:
In effetti santità non riconosciute lo sono davvero, altre, sbattute in faccia, non lo sono affatto. Una rinfrescata sul Che ci voleva.
Carino il video.
Mel
Grande grande grande Che!
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