Splanknistheis è un participio passato greco, lo si trova subito all’inizio del vangelo di Marco(1,40-45) nel racconto di una delle prime guarigioni operate da Gesù. Letteralmente vuol dire “smosso nelle viscere”, ma si preferisce tradurlo con “mosso a compassione”. Appena il nazareno vede il lebbroso, il più reietto e maledetto tra i paria della società del suo tempo, prova un’emozione talmente forte da muovergli appunto le interiora, evento comune a noi umani. A noi uomini che amiamo e perciò sappiamo vivere autentici slanci di commozione che sono spesso partecipazione empatica. Il verbo è ricorrente nei vangeli, segno che il Dio cristiano sapeva amare davvero. E quando si ama, se si può, si agisce, ci si fa anche in quattro pur di essere vicini all’oggetto del proprio amore. Non ci sono regole che tengano: nemmeno la scomunica riservata agli impuri. Infatti Gesù compie il miracolo. Nulla di strano, lui poteva: fin da piccoli ci hanno abituato alla sua onnipotenza. Non ricordo invece che mi abbiano fatto notare anche il seguito che non è meno importante: il Maestro non ritiene sufficiente la guarigione fisica, gli sta a cuore anche la completa reintegrazione sociale dell’exmalato e insiste perché si rechi subito dall’autorità competente per riottenere l’identità perduta.
Penso a Piergiorgio Welby e ai tanti come lui che persino dopo la morte sono stati trattati con freddezza disumana. Non sicuramente dal Gesù dei Vangeli, che anzi avrà subito l’ennesimo terremoto viscerale per l'ulteriore gratuita sofferenza imposta proprio dai Suoi.
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