C'è nella nostra voglia di stare insieme, di vivere momenti di allegra spensieratezza e simpatico divertimento, il bisogno di normalità, di essere completamente noi stessi senza finzioni, senza quelle forzature che il quieto vivere ci suggerisce di adottare quando siamo in mezzo agli altri. Un bisogno di fare gruppo, di sentirci parte di un popolo che nasce dalla lunga, a volte drammatica solitudine nella quale abbiamo maturato l'accettazione di noi stessi, diversi per comune definizione sociale anche all'interno della stessa famiglia. L'esperienza individuale della sofferenza, a volte coraggiosamente affrontata, altre passivamente subita, ha permesso a ciascuno di noi di riconoscere, al di là delle tante differenze che caratterizzano gli esseri umani, la scoperta del limite (di ogni tipo) come elemento accomunante, unificante dell'intero genere. Possiamo anche essere differenti per origine, cultura, etnia, ceto, religione, identità sessuale, etc., ma alla fine, quel che veramente conta è che siamo tutti uguali di fronte al dolore e alla sofferenza. Nessun privilegio di censo e casta pone qualcuno al di sopra degli altri, anche se la storia e la stessa realtà sembrerebbero dimostrare il contrario. Forti di questa acquisita certezza, le divisioni, le intolleranze e le esclusioni suonano come artificiali tentativi di riscatto destinati all'inevitabile fallimento, mentre appare urgente e necessario vivere relazioni capaci di andare oltre l'apparenza, fin dentro il cuore della persona.
Non ci sono ancora leggi che tutelino la nostra realtà come nel resto dell'Europa, ma già oggi anche nella provinciale Italia registriamo un lento ma progressivo cambiamento nel sentire comune. E' un buon segnale.
L'AIDS/HIV, entrato prepotentemente nella vita mondiale e nel dibattito sociale ormai 27 anni fa come elemento frenante e addirittura salutato da qualche parte come il giusto castigo divino, accomuna oggi Nord/Sud, Est/Ovest, etero e omo, uomini e donne, ricchi e poveri, bianchi e neri. La causa scatenante è un virus, anzi un retrovirus, che nulla aggiunge o toglie alla dignità dell'essere umano, al contrario impegna tutti, secondo responsabilità diverse, nella lotta comune contro la pandemia, specie là dove è più virulenta perchè alimentata dalle diseguaglianze sociali.
Il 1 dicembre è anche il giorno della memoria di quanti, meno fortunati di noi, sono incappati nel virus quando ancora non esisteva alcuna terapia di contenimento. Prima ancora della lenta agonia fisica, hanno sperimentato l'atroce sofferenza della condanna sociale alla solitudine disperata. Non possiamo dimenticarli: il loro ricordo pesa sulla coscienza di questa società che non ha voluto (e forse non vuole ancora) riconoscere nel malato, uomo imperfetto, l'immagine più vera di se stessa.
Non avrebbe senso ricordare i morti se non ci fosse contemporaneamente un'attenzione speciale, fatta di concreta solidarietà, per chi ancora oggi vive nella solitudine il dramma dell'Hiv: finchè permarrà il bisogno di nascondersi e di autoescludersi, perchè malati, non potremo considerarci pienamente popolo...