"Io avevo odiato, avevo sofferto tanto, sognavo la vendetta: quando vidi quella pistola ai miei piedi, pensai di chinarmi, prendere la pistola e sparargli (al comandante dell'ultimo campo di detenzione, ndr). Mi sembrava un giusto finale di quella storia, ma capii di esser tanto diversa dal mio assassino, che la mia scelta di vita non si poteva assolutamente coniugare con la teoria dell’odio e del fanatismo nazista; io nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella pistola, e da quel momento sono stata libera." (Testimonianza, pag.12).
Liliana Segre, una delle poche sopravvissute ai campi di sterminio nazisti, conclude sempre con quel ricordo i suoi incontri di testimonianza. La sua personale liberazione è cominciata nel momento in cui ha scelto di non uccidere, pur potendo, l'ultimo dei suoi aguzzini che in quel momento rappresentava, ai suoi occhi, tutti i carnefici dell'umanità. Credo non ci possa essere migliore risposta a chi continua ad invocare la pena di morte, giustificando l'assassinio di Saddam, uno dei tanti crudeli dittatori della storia, ma certo non l'ultimo. Ormai era fuori gioco, non avrebbe più rappresentato un pericolo da vivo. Assassinandolo si è preferito farlo tacere per sempre, pur rischiando di renderlo eroe almeno per i fedeli baatisti. Meglio martire, quindi, che testimone pericoloso.
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